11 maggio 2015

La piccola città di pianura





Scendevo dal treno, e trovavo G. ad aspettarmi sul binario.
Prendeva la mia borsa da viaggio,  e mi portava a casa sua con un auto simile a un pulmino. Guidava e telefonava in viva voce alla madre, chiamandola  per nome. 
Lungo la strada guardavo le case a due piani, gli archi dei  portici, le vetrine minute di negozi eleganti. Dopo un'ora di treno a guardare mais, pioppi, gelsi e lontane montagne, stavo nella piccola città. 
Certe sere G. mi portava fuori, a cena da amici, passava a prendere la madre, e guidava con sicurezza in un intrico di  incroci, uno identico all'altro. 
Gli occhi verdi, statura bassa, muscolare, concentrato, ascoltava musica classica. In casa teneva il riscaldamento spento. Mangiavamo le minestre che preparava con la pentola a pressione, immersi nella musica sinfonica che proveniva dallo stereo sul frigo. 
Dopo cena, ognuno leggeva il proprio libro su un grande canapè verde, accanto alla stufa a pellet, che aveva acceso solo per me. D'abitudine, dormiva con la finestra aperta, ma la chiudeva all'ultimo minuto quando comparivo in pigiama. 
Prima di raggiungermi, si radeva il petto. Il tepore della vicinanza sotto le lenzuola, faceva accadere qualcosa, in quel momento della giornata. La notte teneva sul comodino il cellulare acceso, per la madre.
La domenica mattina  si legava al torace un nastro nero e stretto con un dispositivo che contava i battiti,  si vestiva da ciclista, e partiva per tornare il pomeriggio. In cucina, guardavo dalla finestra la casa di fronte dove non si vedeva mai nessuno dietro le tendine con i volants rossi. Aspettavo il suo ritorno leggendo distesa sul grande canapè verde, alzando lo sguardo ogni tanto. Un giorno mi riaccompagnò alla stazione con l'auto pulmino, scusandosi.