18 marzo 2013

Dialogo di uno speleologo e di una cantante lirica




Cantante:AAAAAaaaaaaaaa....OOOOOOOOOOoooooo......EEEEEEEEEEeeeee..
Speleologo:  Con la U ulula ?
Cantante: Come si permette! Con quel ridicolo cappello in testa. Minatore?
Speleologo: Speleologo, prego. 
Cantante: Sempre sotto terra. Puzza di muffa e roba morta.
Speleogo: C'è più roba morta su un palcoscenico che in una grotta.
Cantante:  Lei non è in grado di capire, io tocco le profondità dell'anima. 
Spleleologo:  Sono esperto di abissi. 
Cantante: Lei  va sotto terra, in modo deliberato  e anzitempo. Mi fa venire la pelle d'oca ..AAAAaaaaaa.. EEEEEEeeeee..
Spleleologo: Il baratro è il mio campo, quando risalgo, ho più anima.  Scommettiamo che la mia anima pesa di più della sua?
Cantante:  Ridicolo!
Speleologo: L'anima pesa 21 grammi. Possiamo fare la prova, ho la bilancia da campo. Metta la sua mano sinistra qui.
Cantante: Ma segna  – 21. Sono dimagrita!
Speleologo: Anch'io ho – 21.
Cantante:  Che significa ?
Speleologo: Se preferisce un eufemismo, siamo scomparsi.
Cantante:  ..... AAAAAAAAAaaaaa …... OOOOOooo..... EEEEEeeee..........
Speleologo: La smetta con i suoi vocalizzi. Non le servono più.
Cantante:  Lei con la sua stupida idea di pesare l'anima! Lei porta iella.
Speleologo: Faccio solo sport. 
Cantante: Mi tiri fuori di qui al più presto. 
Speleologo: Non posso.
Cantante:  Lei è il conoscitore degli abissi ! Faccia qualcosa, io conosco solo arie.
Speleologo: Canti,  tanto nessuno la sente.
Cantante: Trovi un'uscita. Ho uno spettacolo stasera.
Speleologo: Il sipario è calato. Capito?
Cantante: Dovrò far da sola, come sempre. voi uomini, al dunque, niente.
Speleologo: Faccia come le pare,  intanto vedo di sistemare  la tenda.
Cantante: E' attrezzato, complimenti!
Speleologo: Porto sempre una tenda di soccorso.
Cantante:   Non ho mai dormito in una tenda e non dormo con estranei.
Speleologo: Vada pure, si metta in marcia, cerchi l'uscita! 
Cantante: Domani. Vorrei sedermi. Mi sento strana.
Speleologo: Si metta qui,  la roccia è dritta. Cerco un posto per la tenda
Cantante: Non si allontani, La prego. Ho freddo.
Speleologo: Farò presto. 

Centauro




Molto prima che sorga il sole, mi metto alla finestra. Prendo una coperta, un thermos di tè caldo, e lo strumento che ho costruito. La forma ricorda una macchina fotografica, ma serve a raccogliere le frequenze tra il blu 400 e il violetto 450. E' la luce estrema,  al confine tra due zone dello spettro,  là dove il blu quasi muore e il viola non vive ancora.  Per la cattura, mi apposto alcune ore prima dell'alba, a seconda della stagione, quando il buio lentamente si trasforma in giorno.
Sono particelle molto labili, tuttavia hanno una particolarità, sono attirate da una soluzione di acqua e sale lacrimale. Nello strumento c'è una piccola vasca con questo liquido. Ho una riserva di sale che ho tratto dalle lacrime versate da me stesso.
Nella notte estiva, le particelle sono abbondanti, giugno è il mese migliore perché il chiarore inizia alle tre. La particella viaggia rapida, ma ad un tratto si mostra incerta, sbanda inebriata dai gradini del blu e del violetto, attirata dall'umido e dal salato, entra dal foro del catturatore, e si adagia, senza scivolare oltre.  Luce aurorale e lacrime si attraggono. 
Dopo qualche minuto sigillo il foro e sposto lo strumento sul tavolo, oscuro la stanza. Sulla parete di fronte appare una gradazione fluttuante di blu-viola con una leggera fosforescenza Dura un'ora, poi  scompare.
Mi nutro di questa luce estrema, non ho bisogno d'altro.

Panorama umile





La  casa sta in cima a una collina che digrada dolcemente verso il fondo piano. Ha otto finestre, due per ciascun lato, che offrono 360 gradi schietti di panorama. Il punto forte della casa sono le finestre, dotate di un accrescitore al mercurio, che permette a chi guarda fuori, di vedere l'oltresimile.
Stiamo alla finestra di giorno e di notte, in tutte le stagioni, a turno. L'accrescitore  fa un rumore leggero, come fusa di gatto. Non si spegne mai, e d'altra parte non abbiamo pensato nemmeno per un attimo di farlo, e rinunciare così  alla visione dell'oltresimile, 
Una volta al mese per la messa a punto del mercurio, arriva la signora Venus. Lei ci rassicura che un giorno  la visione diverrà stabile nei nostri occhi, e potremo diradare i turni, uscire, anche fare dei viaggi.
La signora Venus è inseparabile dai suoi conigli e cigni tascabili, in tutto venti bianchissimi elementi che l'accompagnano ovunque.
Appena arrivano, ci diamo da fare in cucina per preparare cibo adatto, in tenere porzioni a dadi. La signora Venus si occupa personalmente di nutrire il suo seguito, e ci permette di guardare a rispettosa distanza.
Dopo il loro arrivo, nella casa si spande un profumo di  pane appena sfornato, e questo senza che noi abbiamo infornato alcunchè.  La singolarità  ha divertito la signora Venus. Non abbiamo osato chiedere,  è come una dea per noi.
Abbiamo pensato a qualche bizzarria della macchina in presenza della signora. La macchina spande un profumo umile di pane. Crediamo per gratitudine.
Quando ripartono, torniamo al nostro quotidiano, alle finestre. Talvolta accade che stando alla finestra a guardare fuori, vediamo l'immagine oltresimile di noi stessi, come un miraggio. Affinchè questa immagine ingannatrice non si ripresenti ai nostri occhi, basta guardare molta aurora. E siccome l'aurora ritorna con una deliziosa ripetitività, siamo tranquilli. 

Minestra e finestra




Mi hanno lasciato a casa, sono rimasto in camera mia. Se ne vanno a mangiare fuori, nelle ricorrenze, i compleanni. Sanno che non posso uscire in questo stato, ci vanno lo stesso.  Il padrone di casa è uno giovale, alle volte ha  scoppi di rabbia violenta per cose irrilevanti. Mi ripeteva che dovevo darmi una regolata. Ma poiché questo non è accaduto, alla fine  ha preso le forbici e ha tagliato.
Nella casa si mangia abbastanza bene, c'è il riscaldamento, e se hai bisogno di un paio di scarpe o delle calze, sono premurosi. Ti portano spesso dal dottore per controllare la tua salute. Ma l'importante è che tu non faccia rumore. Le mie ali, a quanto pare, lo fanno.
Mentre discutono a tavola,  io faccio voletti fuori, perché ho un punto di vista alato. Questo non va bene, lo tollerano a mala pena. Un giorno il padrone di casa è arrivato con le forbici.
Ora sono piccole e avvolte di piumette racchiuse come un germoglio, crescono in fretta. Non mi piace restare chiuso in casa. Mi piace guardare dal balcone i pipistrelli che fanno rifili alla casa dopo il tramonto. L'unica cosa che ho comprato per la mia stanza è una poltrona, ma quando me ne andrò, la lascerò qui.
Quando avrò una casa tutta per me, la lascerò vuota, con tanto spazio per le mie ali. Sono consapevole che qualcosa mi rimarrà dell'abitare nella loro casa,  ci vorranno anni, mi curerò.
Il padrone e gli altri della casa mi rimproverano di non aver pianto quando loro hanno pianto. Questo non significa che io sia freddo o beffardo,  se piango lo faccio più tardi, da solo.


16 marzo 2013

La casa Saturn&Uranus





Quando i due architetti J. Saturn e H. Uranus hanno consegnato la casa e se ne sono andati, ho deciso  che dovevo fare qualcosa per sistemarla. Intanto i cuscini viola sul divano antracite, rigido e basso, hanno migliorato il soggiorno, ma non è invitante rimanere tra pareti di cemento grezze a leggere un intero pomeriggio.
Il problema serio erano gli spigoli, disseminati ovunque, e con una particolare affilatura. Mi ferivo anche se stavo attenta, giravo con i cerotti in tasca. Finchè mi sono stancata di soffrire, e  ho incerottato gli spigoli con gomma piuma, e rivestito il bordo dei gradini con adesivi morbidi e colorati.
Il lato sud della casa è quello che preferisco, una grande vetrata dà sulla piscina lunga e blu, incastonata in passerelle di  legno. Attorno prato inglese, un velluto verde senza un filo secco, una foglia o una piuma.
Sento spesso  il ronzio lontano di un tosaerba,  ma non ho mai visto nessuno. Nello spogliatoio della piscina, ho trovato un frigo medio,  diviso in due colonne ben ordinate, da un lato buste di aringa affumicata e cartoni di latte,  dall'altro crostata di mirtilli rossi in pacchetti e birra danese. Gusti che fanno a pugni, mi domando se sia roba del giardiniere che non si fa vedere. 
Una mattina mi sveglio, e vedo una colonna di fumo denso e grigio venire dal retro.  Esco, in fondo al giardino c'è un capanno di mattoni rossi, con uno spiazzo. In un bidone arrugginito bruciano  ramaglie. Un tizio alto e magro guarda la fiamma, grembiule impermeabile lungo, una carriola a fianco piena di foglie secche.
Lo vedo per la prima volta, sta immobile, la schiena così diritta da sembrare un arco tirato al massimo , le braccia appoggiate  ai fianchi, il collo esile che sbuca da una camicia chiara, capelli a spazzola molto corti. Quando il fumo si è fermato, ha rovesciato il bidone e con una scopa ha raccolto accuratamente la cenere in un mucchio ordinato. Ha svuotato il contenuto della carriola nel bidone, e ha dato fuoco con un fiammifero. Fa la guardia e in silenzio brucia.

La casa solare



 La porta d'ingresso ha venature che disegnano una fiamma. Una figura alta, spalle forti da nuotatrice,  capelli morbidi e dorati, gli fa strada. E' sorpreso che il cliente sia una donna. Sulle pareti una luce arancio senza alcuna lampada, parquet chiaro, un salone  con una stufa dove brilla un fuoco. Una grande vetrata, una terrazza, oltre un parco. 
Si accomodano su due sdraio di legno con cuscini dorati.
"Ha portato il materiale ?" chiede la donna con una voce molto bassa.

"Sì." risponde l'uomo, sorpreso dal timbro  maschile. 

"Può preparare fuori in terrazza, grazie." 

L'uomo fa scorrere la vetrata, esce all'esterno, e depone a terra una scatola. Fa scattare l'innesco e rientra svelto all'interno. Dopo alcuni minuti dal contenitore si sprigiona un'esplosione di fuochi artificiali bassi, dalle tonalità cupe dell'azzurro. Quindici secondi,  si spegne.

"Mi piace. Può  aumentare  la  durata e l'altezza ?"

"Sì,  ma c'è bisogno di più spazio, o brucia tutto."

"Non è un problema, ci risentiamo tra qualche giorno." 

L'uomo annuisce e si avvia all'uscita. Una calda luce aurorale scende dalle pareti
Tutto gli  appare necessario. 


Del lontano




Nebbia ai confini di B. Guardiamo dai finestrini, avvolti nelle coperte perchè nello scompartimento fa freddo. C'è odore di mela e minestra acida. I sedili duri di legno, in mezzo  un tavolo ribaltabile stretto, su cui abbiamo messo un piatto con quattro pere e due pezzi di formaggio. Nel thermos il  tè che abbiamo comprato da un venditore ambulante alla stazione.
Il treno attraversa boschi di betulla innevati, il cielo è bianco. Ancora un giorno,  e dopo ci saranno le slitte con i cavalli per portarci a K. Siamo assorti a guardare fuori. Dovremo trascorrere due anni sulla linea di confine.  Non siamo spaventati, ma parliamo poco, il silenzio ci risparmia.
Siamo partiti in dieci perchè è il numero che ci permette di uscire dalla zona morta. Mangiamo soltanto cose in numero pari, che siano pere o formaggio o pane, e questo perchè per compiere il viaggio, il treno non basta. Lungo il percorso ci sono fili invisibili che devono essere recisi per proseguire. I numeri pari sono i nostri coltelli, fendono l'intrico dei fili e dei i veli che ingombrano la via. Senza qualcosa che spezzi, è un' illusione pensare di  raggiungere un posto lontano.
Al nostro terzo giorno siamo inquieti. I nostri occhi stanno cambiando, alcuni hanno dei bruciori, altri una sensazione di corpi estranei. La mente fatica a spostarsi, e a volte finisce per rinunciare, anche se il corpo continua il viaggio. Molti pensano che basti salire su un treno per viaggiare, pochi sanno che è l'inerzia a permetterci di andare. Bisogna assecondarla. Solo così si può veramente partire, senza pensare a ciò che abbiamo lasciato,  la nostalgia che rende incerti e paurosi i nostri passi nel lontano.

15 marzo 2013

Lettera di Giulietta Capuleti a Violetta Valery




Gentile signora,

ho 14 anni e mi chiamo Giulietta. Mi piacciono le tende sollevate dal vento e i vetri colorati.
Nella sua lettera, Lei parla di tante cose. Sui padri, sono d'accordo. Ho visto spesso la scena che lei descrive. Loro brindano con chiunque sia utile brindare. 
Adoro le boccette colorate, la forma piccola tonda o quadrata con gli angoli smussati o a piramide, e il vetro verde o marrone, a volte blu, e anche viola. Non posso fare a meno di aprirle e assaggiarne un pochino, anche se sono amarissime.  In casa lo sanno, e mettono sotto chiave tutto, è successo che sono stata male dopo avere provato da un'ampollina di vetro blu,  una goccia sulla lingua, un fantastico gusto di mandorla. Mi hanno fatto vomitare, devo dire che non mi è dispiaciuto.  Dopo questo incidente,  non c'era modo per procurarmi altre bottigliette. 
Il giorno del mio compleanno, alla festa che i miei danno sempre, pieno di gente, arrivano dei tizi mascherati che cominciano a fare gli scemi. Uno di loro mi guarda fisso. Esco in giardino e lo zotico  mi segue. Smancerie varie e salta fuori che si chiama Romeo, e appartiene alla famiglia con cui i miei hanno casini pazzeschi.
Gli racconto della mia passione per le boccette colorate ecc. Il tipo dice che ha un amico frate,  fissato con gli intrugli alchemici, che ha un sacco di bottigliette, che può portarmene qualcuna. Gli dico sì, è tornato con un bel po' di roba,  volevamo provarle tutte, e vedere quanto riuscivamo a resistere con poche gocce senza star troppo male.
Ha ragione signora Violetta, quando dice di non fidarsi. Lui si avvicinava a me serio, mi sfidava a bere ancora una goccia se avevo il coraggio. Io il coraggio l'ho avuto, lui invece ha perso la testa quando mi ha vista cadere giù secca e blu sulle guance.
Ho imparato, signora.
Giulietta


Lettera di Violetta Valery a Giulietta Capuleti






cara Giulietta,
non sta da nessuna parte che un personaggio d''opera come me, Violetta, detta anche Traviata, scriva a te, che stai in un balletto, Giulietta e Romeo. C'è qualcosa che ci lega in qualche modo? Niente, meno di niente. Immagino tu dica.
Per parte mia, invece sì, una sola cosa: si beve, e finisce in tragedia. La mia storia annega nei brindisi da subito, tutti,  eleganti e accaldati, cantano sotto pesanti lampadari di cristallo,  i calici sbandano, le signore anche, avvitate nei corsetti. Ogni festa, va così, giovani o vecchi è uguale, uomini mi avvicinano con un bicchiere di qualche liquido alcolico, con le guance rubizze,  e forse hanno le vertigini, finisce che il mio vestito resta macchiato. Non tirano fuori il portafoglio per pagare il danno, sarebbe inelegante, con discrezione i soldi arrivano nelle mani di una cameriera, e poi a me. La seta lavata è finita, il vestito è da buttare, ma la cameriera lo recupera dalla spazzatura per sè. 
Il punto è non devi mai bere liquidi offerti da uomini che ti guardano seri e benevoli, tieniti lontana da loro. Ora che ho il petto come un colabrodo, quei gentiluomini sono severi e compassionevoli, mi parlano del conforto che dà il pentimento, e mi portano bottigliette nere con medicine disgustose. Se avessi il petto florido che avevo prima, non mi seccherebbero con la redenzione.
Vedi Giulietta, il tuo bere a sproposito bottigliette strane, sarà motivo di altri brindisi,  i due padri, il tuo e l'altro, suggelleranno con mestizia la pace, bevendo qualcosa insieme. E dopo aver concluso la visita al mio capezzale, gentiluomini e pie dame si fermeranno al bistrot, calice in mano parleranno del mio funerale,  in fine si saluteranno con un inchino e alzando il cappello.
La mia redenzione è liquida.
Violetta Valery

14 marzo 2013

Storia di L.

E' finito il latte. Sono le 11 e non c'è più aurora quando mi alzo, apro il frigo e vedo che manca il cartone blu. Un giorno è un altro giorno, niente dita rosate e scivolo nel cielo. Vado in bagno, non per lavarmi, per quello c'è tempo, ma per l'ovatta. Apro un pacchetto e sfilo tutta la striscia di cotone idrofilo bianco, soffice. La avvolgo attorno le braccia. Ne apro altri quattro, due per il busto, una per ciascuna gamba. La schiena deve essere ben coperta. Con le garze al metro fisso,  mi metto la felpa indaco e i pantaloni larghi azzurri. Finito, esco dal bagno e vado alla finestra della cucina, che dà sulla strada. All'angolo c'è il bar latteria, trenta metri dal portone. Non posso, devo aspettare cinque ore prima che lo strato corneo si ricostruisca. Torno a letto, mi metto il plaid rosso ciliegia addosso, guardo il soffitto. C'è un ragno nell'angolo a sinistra. Nero, peloso, con una testa calva più chiara. Lo seguo,  vira in basso a discesa verso il letto. Prendo una pantofola e gliela tiro, lo becco in pieno.
Sul comodino ho il giornale che quell'altro ha macchiato di caffè sulle pagine degli annunci. Ci passa il tempo a leggere e collezionare roba stramba. L'ultima è questa dell'amigdala, cerco donatore. Io l'amigdala me la tengo, e non verso il caffè sul giornale, come fa lui. I ritagli sparsi  sono un cimitero di giornali, tra un po' si sprofonda, sotto una terra di carta stampata, che puzza, e io non respiro se il giornale è fresco.
Lui mi dice che sono una bambina malata, dice di aver  visto più volte  una tizia con i capelli lunghi neri seduta all'angolo del letto, dalla mia parte. A me non è mai successo. Lui non sa usare una sveglia,  sbaglia le lancette tre giorni su quattro. Si alza alle sette e un quarto, come un baggiano va in ufficio, e quando arriva,  la signora delle pulizie gli fa l'occhiolino, perchè non è ora.
Ha la mania delle lampadine da 1000 watt, alogene. Gli ho proibito di mettere roba simile in camera da letto e in cucina. La luce è accesa solo  quando  lui è in casa. Esco dalla camera,  pare di stare su un ghiacciaio himalayano a mezzogiorno. Lo zenit che picchia in testa. Mi sono abituata, quando lui è in casa, tengo gli occhiali da sole e tiro avanti dritta, scansando i punti dove la luce è più intensa. Una volta un suo amico ha avuto una crisi per via dell'abbaglio, ed è scappato fuori come un razzo dopo un quarto d'ora, o dieci minuti, non ricordo, forse due.
A mezzogiorno e mezza, lui torna a casa per il pranzo. Entra, accende la luce, mi metto gli occhiali da sole e lo vedo con una roba addosso nuova.
"Che ci fai con quel cappotto rosso?"
"Mi piaceva, l'ho comprato."
"Dove?"
"Qui sotto, all'angolo hanno aperto un magazzino,  cinesi."
"Mai visto."
"Stamattina scaricavano cartoni su cartoni, sono entrato, avevo tempo prima di andare in ufficio. Hanno tirato fuori centinaia di cappotti rossi. Come va  con la cornea?"
"Non è la cornea, è lo strato corneo. Ancora  tre ore."
"Dopo esci?"
"Non so. Puoi prendere il latte? è finito."
"Se mi ricordo. Potresti uscire tu, hai solo trenta  metri fino alla latteria."
"Pensa invece a buttare via un po' di giornali si sprofonda che pare un cimitero."
"Ieri notte ho visto la signora dai capelli neri, seduta ai piedi del letto, dalla tua parte."
"Che solfa!"
"Vado, a stasera."
Spengo la luce, tolgo gli occhiali. Faccio una lavatrice, fa due ore di programma a 40 gradi. Torno a letto e apro il libro alla prima pagina, non riesco ad andare oltre questa storia di roba inquieta, dove paletti di un confine si spostano da soli nella notte. Chiudo gli occhi. Il  latte inquieto nottetempo si sposta dal bar latteria, fa i trenta metri fino al portone, sale le scale, secondo piano, passa oltre la porta, entra in cucina, e si mette nel frigo, ripiano alto, vicino al barattolo del caffè. Magnifico. Lavatrice finita. Tiro fuori e stendo. Uso solo mollette di legno.