14 marzo 2013

Storia di L.

E' finito il latte. Sono le 11 e non c'è più aurora quando mi alzo, apro il frigo e vedo che manca il cartone blu. Un giorno è un altro giorno, niente dita rosate e scivolo nel cielo. Vado in bagno, non per lavarmi, per quello c'è tempo, ma per l'ovatta. Apro un pacchetto e sfilo tutta la striscia di cotone idrofilo bianco, soffice. La avvolgo attorno le braccia. Ne apro altri quattro, due per il busto, una per ciascuna gamba. La schiena deve essere ben coperta. Con le garze al metro fisso,  mi metto la felpa indaco e i pantaloni larghi azzurri. Finito, esco dal bagno e vado alla finestra della cucina, che dà sulla strada. All'angolo c'è il bar latteria, trenta metri dal portone. Non posso, devo aspettare cinque ore prima che lo strato corneo si ricostruisca. Torno a letto, mi metto il plaid rosso ciliegia addosso, guardo il soffitto. C'è un ragno nell'angolo a sinistra. Nero, peloso, con una testa calva più chiara. Lo seguo,  vira in basso a discesa verso il letto. Prendo una pantofola e gliela tiro, lo becco in pieno.
Sul comodino ho il giornale che quell'altro ha macchiato di caffè sulle pagine degli annunci. Ci passa il tempo a leggere e collezionare roba stramba. L'ultima è questa dell'amigdala, cerco donatore. Io l'amigdala me la tengo, e non verso il caffè sul giornale, come fa lui. I ritagli sparsi  sono un cimitero di giornali, tra un po' si sprofonda, sotto una terra di carta stampata, che puzza, e io non respiro se il giornale è fresco.
Lui mi dice che sono una bambina malata, dice di aver  visto più volte  una tizia con i capelli lunghi neri seduta all'angolo del letto, dalla mia parte. A me non è mai successo. Lui non sa usare una sveglia,  sbaglia le lancette tre giorni su quattro. Si alza alle sette e un quarto, come un baggiano va in ufficio, e quando arriva,  la signora delle pulizie gli fa l'occhiolino, perchè non è ora.
Ha la mania delle lampadine da 1000 watt, alogene. Gli ho proibito di mettere roba simile in camera da letto e in cucina. La luce è accesa solo  quando  lui è in casa. Esco dalla camera,  pare di stare su un ghiacciaio himalayano a mezzogiorno. Lo zenit che picchia in testa. Mi sono abituata, quando lui è in casa, tengo gli occhiali da sole e tiro avanti dritta, scansando i punti dove la luce è più intensa. Una volta un suo amico ha avuto una crisi per via dell'abbaglio, ed è scappato fuori come un razzo dopo un quarto d'ora, o dieci minuti, non ricordo, forse due.
A mezzogiorno e mezza, lui torna a casa per il pranzo. Entra, accende la luce, mi metto gli occhiali da sole e lo vedo con una roba addosso nuova.
"Che ci fai con quel cappotto rosso?"
"Mi piaceva, l'ho comprato."
"Dove?"
"Qui sotto, all'angolo hanno aperto un magazzino,  cinesi."
"Mai visto."
"Stamattina scaricavano cartoni su cartoni, sono entrato, avevo tempo prima di andare in ufficio. Hanno tirato fuori centinaia di cappotti rossi. Come va  con la cornea?"
"Non è la cornea, è lo strato corneo. Ancora  tre ore."
"Dopo esci?"
"Non so. Puoi prendere il latte? è finito."
"Se mi ricordo. Potresti uscire tu, hai solo trenta  metri fino alla latteria."
"Pensa invece a buttare via un po' di giornali si sprofonda che pare un cimitero."
"Ieri notte ho visto la signora dai capelli neri, seduta ai piedi del letto, dalla tua parte."
"Che solfa!"
"Vado, a stasera."
Spengo la luce, tolgo gli occhiali. Faccio una lavatrice, fa due ore di programma a 40 gradi. Torno a letto e apro il libro alla prima pagina, non riesco ad andare oltre questa storia di roba inquieta, dove paletti di un confine si spostano da soli nella notte. Chiudo gli occhi. Il  latte inquieto nottetempo si sposta dal bar latteria, fa i trenta metri fino al portone, sale le scale, secondo piano, passa oltre la porta, entra in cucina, e si mette nel frigo, ripiano alto, vicino al barattolo del caffè. Magnifico. Lavatrice finita. Tiro fuori e stendo. Uso solo mollette di legno.

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