23 dicembre 2012

Storia del salto





Vado a dormire il 23 dicembre, e mi sveglio il 7 gennaio, lo dico e lo faccio. Oltre la melma nera delle feste. Due plaid, camicia da notte di bucato. Lasciare tutto pulito. Non dare disturbo. Poca roba. Buttare via le immondizie. Spegnere il cellulare, tirare giù  le tapparelle. Tappi nelle orecchie. Com'era quel film giapponese? un cannolo di ovatta nell'ano. Un foulard legato attorno al viso e annodato sopra. Per le correnti, non si sa mai. Mi mancheranno le sigarette, un bagno, un fritto di pesce e polenta, una domenica pomeriggio a letto con M. Poca roba.
Il punto è il risveglio. Chi mi tira fuori da un sonno di  due settimane? sogni  lunghissimi, reiterati. Un timer ci vuole, un fischio da fabbrica che mi riporti indietro. Ancora un calice di vino e spengo la luce.
Sparire costa, però. Al ritorno, dover rispondere alle domande famiglia-amici, compatti come un pasticcio stracotto, perchè non rispondevi? dove eri? a nessuno poter la verità nuda, che va rivestita, la sartoria della  menzogna, perchè loro, le feste, le hanno fatte, pieni di cibo e regali, grassi dal sorridere e masticare,  gonfi come schiuma, e le schiume tolgono l'aria, finisce che soffoco.
Oppure, tutto il contrario, resto con gli occhi spalancati a radar,  come piatti  vuoti rivolti all'universo. Senza  mai cedere al sonno,  alla fatica. Buttar giù tanto caffè che raddrizza la schiena e frusta il cuore. E come i bollini della spesa, incollare visite, pranzi, cene, vigilie e avanzi del giorno dopo, ballare con uomini sconosciuti. Darsi come un potlach, non negarsi a chi chiede. Consumare calici, andare a tutti gli aperitivi, concerti, ammaina bandiera. Evacuare. Bere lentamente. Saltare dentro.

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