16 marzo 2013

Del lontano




Nebbia ai confini di B. Guardiamo dai finestrini, avvolti nelle coperte perchè nello scompartimento fa freddo. C'è odore di mela e minestra acida. I sedili duri di legno, in mezzo  un tavolo ribaltabile stretto, su cui abbiamo messo un piatto con quattro pere e due pezzi di formaggio. Nel thermos il  tè che abbiamo comprato da un venditore ambulante alla stazione.
Il treno attraversa boschi di betulla innevati, il cielo è bianco. Ancora un giorno,  e dopo ci saranno le slitte con i cavalli per portarci a K. Siamo assorti a guardare fuori. Dovremo trascorrere due anni sulla linea di confine.  Non siamo spaventati, ma parliamo poco, il silenzio ci risparmia.
Siamo partiti in dieci perchè è il numero che ci permette di uscire dalla zona morta. Mangiamo soltanto cose in numero pari, che siano pere o formaggio o pane, e questo perchè per compiere il viaggio, il treno non basta. Lungo il percorso ci sono fili invisibili che devono essere recisi per proseguire. I numeri pari sono i nostri coltelli, fendono l'intrico dei fili e dei i veli che ingombrano la via. Senza qualcosa che spezzi, è un' illusione pensare di  raggiungere un posto lontano.
Al nostro terzo giorno siamo inquieti. I nostri occhi stanno cambiando, alcuni hanno dei bruciori, altri una sensazione di corpi estranei. La mente fatica a spostarsi, e a volte finisce per rinunciare, anche se il corpo continua il viaggio. Molti pensano che basti salire su un treno per viaggiare, pochi sanno che è l'inerzia a permetterci di andare. Bisogna assecondarla. Solo così si può veramente partire, senza pensare a ciò che abbiamo lasciato,  la nostalgia che rende incerti e paurosi i nostri passi nel lontano.

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